giovedì 27 febbraio 2014

Disciplina e democrazia

Grillo e tutti gli aderenti al M5S sono perfettamente legittimati a fare quello che hanno fatto, ovvero ad espellere i quattro senatori dal loro gruppo parlamentare. Non c'è assolutamente nulla di strano, né di insolito: non è la prima volta che succede, e probabilmente non sarà l'ultima. Se hanno deciso di darsi un regolamento interno, e delle procedure di votazione per giudicare delle infrazioni, tutto quel che è accaduto è semplicemente logico e conseguente. Anche sulla questione del “vincolo di mandato”, enunciato nell'articolo 67 della nostra costituzione, c'è poco da dire, dal momento che, ovviamente, i quattro senatori non decadono da parlamentari e possono tranquillamente continuare a rappresentare la nazione in parlamento, sempre che non si vogliano dimettere autonomamente (ma poi le dimissioni devono essere approvate...).
Quindi, non c'è nessun problema? Un problema c'è, ma è solo di coerenza tra quel che si dice e quel che si fa. Può interessare solo gli elettori del M5S, sempre che questo tipo di sottigliezze interessi loro. Il problema di coerenza sta tutto nel fatto che il M5S, il MoVimento della democrazia diretta, che non è un partito, che non ha strutture, che non ha iscritti e tutto il resto della retorica spontaneista che conosciamo a memoria, si comporta come un partito degno dell'aurea stagione della partitocrazia repubblicana. Anzi, pure peggio. Mi spiego.
In rete è possibile leggere un ottimo articolo di Paolo Emilio Tavani, uscito nel 1963 su Civitas, che meriterebbe di essere esaminato con cura. Ma per quel che ci riguarda, basta soffermarsi sul paragrafo che riguarda l'articolo 67. Taviani, in parole povere, vi difende il ruolo dei partiti (dei grandi partiti di massa: burocratici, organizzati, disciplinati) nel panorama politico italiano. Sostiene, in particolare, che le pratiche parlamentari dei partiti della “prima repubblica” non contrariavano la lettera dell'articolo 67, ma anzi che nella sostanza, e dato il contesto politico e sociale dell'Italia di allora, la rispettavano.
Che cosa dice l'articolo 67? Che i parlamentari esercitano le loro funzioni “senza vincolo di mandato”. Taviani, che di fatto sta difendendo le pratiche parlamentari democristiane, intende dimostrare che una (forte) disciplina di gruppo non smentisce questo principio. L'argomentazione dovrebbe interessare il M5S, anche se bisogna notare che Taviani precisa che “sarebbero in netto contrasto con la citata norma costituzionale eventuali espedienti per aggirare il divieto di vincolo del mandato, quali le dimissioni con data in bianco”. Comunque, il punto è, ripeto, che la libertà dal vincolo di mandato, per Taviani può benissimo coesistere con una disciplina parlamentare rigida. Perché? Perché il partito è uno “strumento necessario nella vita dello Stato” che “non può esaurire la sua funzione nel momento elettorale” e “attraverso la scelta dei candidati”. Il partito, dice Taviani, non è più un mero comitato elettorale, come ai tempi dello Stato liberale. E perciò è “logico e conseguente che, anche dopo le elezioni, il programma del partito, interpretato e precisato dagli organi del partito a ciò statutariamente preposti, giochi un ruolo primario negli orientamenti del parlamentare, che è stato eletto anche in virtù dei suoi meriti personali, ma in maggior misura per il suo collegamento con una determinata impostazione ideologica e programmatica”. Al netto dell'italiano forbito, di un certo gergo giuridico, di una terminologia politica d'antan, sono parole che gli esponenti del M5S potrebbero sottoscrivere. Sono parole, sottolineo ancora una volta, pronunciate nel 1963 da un dirigente di primo piano della DC per giustificare, legittimamente, pratiche di pura e semplice disciplina di partito.
Ho detto però che quel che fa il M5S è, in un certo senso, pure peggio. In che senso, allora? Taviani qui parla di “programma di partito, interpretato e precisato dagli organi del partito a ciò statutariamente preposti”. Con cosa ci confrontiamo, noi, oggi? Quando nel 1969 la “Quinta Commissione” espulse il gruppo del Manifesto, decisione che valse ad Alessandro Natta la qualifica di repressore, il Partito Comunista Italiano contava più di un milione e mezzo di iscritti. I quali, ancorché con passaggi burocratici che di certo diluivano il loro tasso di partecipazione, potevano votare per eleggere quegli “organi del partito” di cui parla Taviani nel suo articolo. Nelle politiche del 1968, il PCI era stato votato da circa otto milioni e mezzo di elettori. Più o meno lo stesso numero di elettori che, alle ultime politiche, ha votato M5S. La “consultazione online” che ha sancito l'espulsione dei quattro senatori ha visto la partecipazione di 43.368 attivisti. Nelle parole di Grillo (via Twitter): “29.883 hanno votato per ratificare la delibera di espulsione. 13.485 hanno votato contro”. Il M5S ha l'elettorato di un grande partito di massa, e sfiducia i suoi eletti con consultazioni che hanno i numeri di un partito dell'epoca del suffragio censitario. L'obiezione, a questo punto, è: però le decisioni sono prese comunque da un numero ben più elevato di persone, rispetto ai pochi membri di un comitato centrale o di una segreteria. Bisognerebbe fare bene i conti con l'intera struttura dirigente, locale e centrale, di un partito come poteva essere il PCI nel '68, cioè quando grosso modo prendeva gli stessi voti del M5S, ma l'obiezione è seria e va presa in considerazione. Va anche preso in considerazione il fatto, però, che quei partiti di massa avevano sezioni, che votavano organi provinciali e regionali, che partecipavano a congressi, che eleggevano dirigenze nazionali, che indirizzavano a loro volta l'azione dei gruppi parlamentari. Che cosa abbiamo, qui, ora? Grillo Giuseppe detto Beppe, da Sant'Ilario (GE), che scrive email e pubblica video sul suo blog consigliando di ratificare l'espulsione. Tutto perfettamente legittimo, ripeto. Si sappia però che i corifei della democrazia diretta si comportano niente più e niente meno che come un partito della prima repubblica, con l'aggravante che non hanno neppure l'ombra delle strutture, in qualche modo democratiche, che quei partiti, pur con tutti i loro limiti, avevano. L'obiezione finale, a questo punto, è del tipo “ci stiamo lavorando”. Siamo lontani dall'ideale, ma siamo in cammino, stiamo affinando le nostre pratiche di partecipazione, eccetera eccetera. Benissimo. Ma perché, nel frattempo, non scegliere il meno peggio piuttosto che il peggio? Perché non darsi le normali strutture di un partito? La risposta più semplice ha motivazioni propagandistiche: bisogna dimostrare di essere diversi. Anche quando non lo si è – a meno che non si creda che farci vedere una riunione in streaming sia un cambiamento sostanziale. La risposta più complessa ha motivazioni più profonde. E sta tutta nel fatto che queste pratiche, di presunta democrazia diretta, sono più manipolatorie persino di quelle che poteva mettere in atto un “comitato centrale” o una “segreteria” di un vecchio partito di massa.

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